Perché dipingo

Paesaggio a Pontremoli

un artista è autentico solo nei suoi limiti, ed essi – siano grandi o piccoli – sono l’unica misura della sua autenticità quale si manifesta nella sua opera.
Tale concetto, che Salvatore Cascino, come ogni altro artista, sa di dover tenere ben presente, si accompagna all’altro che impone all’artista di essere consapevole del proprio valore e di rispettare il proprio linguaggio pittorico. Non due ma un solo linguaggio si identifica con la propria natura, la propria personalità, la propria cultura. Quindi rifiutare rigorosamente ogni opera che sia al di sotto del meglio che l’artista possa dare. In tal caso è superfluo e ridicolo misurarsi con altri, magari stabilendo arbitrarie graduatorie.
Poste le premesse, Salvatore Cascino è li, nel bene e nel male, unico e irripetibile, fiero della propria originalità affidata in piena libertà al proprio estro. Nelle opere migliori, quelle dei giorni fausti, il pittore è consapevole dei risultati raggiunti e della propria maturità di giudizio. Il pensiero va a Paesaggio a Pontremoli, del 1985, al Ponte fra le calli di Venezia del 1990, al Ritratto di giovinetto del 1987, al Ritratto del pittore Giosè Matichecchia del 1988 e ad altre non poche opere compiutamente realizzate. L’artista sa che fare arte non significa imitare la natura o limitarsi alla somiglianza di un volto o esercitarsi nella composizione di una natura morta. Fare arte significa porsi all’interno del ritmo naturale delle cose, del paesaggio, delle persone, alla ricerca di quella profonda consonanza che deve verificarsi tra l’oggetto e l’energia creativa dell’artista. Per il poeta Dino Campana essere grande artista non significa nulla: essere un puro artista ecco ciò che importa.
Oh, l’arte! Caro Cascino, l’arte è l’unica cosa che ci consola della pena di vivere, anche se tanta arte contemporanea ci procura oggi non pochi dispiaceri. A chi ti chiede perché dipingi, tieni pronta la risposta: “Dipingo perché all’arte io domando di farmi sfuggire dalla società degli uomini per introdurmi in un’altra società”.

giorgio ruggeri

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Infrazioni del cuore

Il pittore Giosè Matichecchia

Un forte odor di colori, tele ammassate alle pareti, ovunque un’immagine d’altri tempi dello studio del pittore, quasi “antica”, immersa in un’atmosfera alla Dorian Gray; ma poi, bruscamente, il clima ottocentesco si dissolve incrociando quello sguardo, ironico e ambiguo, quegli occhi inquieti, angosciosi he mi fissano dalla carta e accanto, la tavolozza, incrostata di materia, è un groviglio denso, organico, immagine di un segno nervoso, inquieto, affascinante nelle sue esaltazioni, in un’altalena di contrasti tra un costante tentativo di solarità, ed un continuo, angosciante risultato, profondamente vissuto e sofferto, quasi impotente di fronte alla propri solitudine interiore, In quelle mani, in quei piedi così affusolati, lunghi, c’è un desiderio di comunicazione, una spinta ad uscire dalla tela, ed invadere l’esterno, di rivelare un privato così duramente, insistentemente represso negli anfratti della propria memoria, da quei piccoli tocchi, appassionati e mai compiaciuti, che s’inseguono sullo sfondo; una memoria che però rivela, in dettagli quasi impercettibili, una sensibilità ricca di poetica, come nelle dolcezze di una favola non raccontata nella veduta di Pistoia, dove il paesaggio, delicatamente rosato, incantato del fondo, viene improvvisamente scollegato temporalmente da un primo piano ritagliato come un moderno collage.
Voglia di sognare, forse di recuperare un’ingenuità appena vissuta, che invece un pesante interamente cosciente del dolore, della durezza dell’ingovernabilità del proprio essere uomo. E allora la propria angoscia ribelle prende il sopravvento nelle lacerazioni di pelle, quasi scarnificata, che compaiono nei muri attraverso quei mattoni rossi, o come nelle ragnatele, terribilmente organiche, dei cardi quasi carnivori, mentre ricorre, sempre il disperato tentativo di allungamento fuori del quadro verso qualcosa di inafferrabile, che come il richiamo irresistibile della sirena, spinge a non fermarsi li, ma ad andare sempre, inesorabilmente avanti, quasi senza meta, in un vagabondare di emozioni eternamente contrastanti. La dialettica tra l’interno e l’esterno avviene dovunque, anche nelle pieghe della camicia di Giuseppe o nei ritratti di Ida, a volte donna reale, vera, mangiata dalla propria vita, e a volte, suo malgrado, modello antropologico, dove il viso è diventato una maschera primitiva, vertice di un corpo-piramide. L’ambiguità si affaccia prepotentemente nei ritratti di Stefano, culminando nel disegno che ritrae una bambina, inconsapevole prototipo generazionale: corpo di bambina, viso da donna, capelli da nonna.
Questa apparente mancanza di chiarezza in un’epoca massificata dai mass-media, è in realtà la ricerca di un'”io”, non più assoggettato all’obbligo di idee meccaniche, ma legittimato dai propri bisogni individuali come il senso del colore, il linguaggio delle forme, la consapevolezza dello stile, l’intrinsecazione della propria sfera emozionale, nel raggiungimento di un’ideale meta di fusione tra arte e via.
Ora, nella ricerca della simbiosi tra “uomo – anima – natura”, la contemplazione a lungo meditata e ricercata interiormente, trabocca nei muri delle ultime Venezie e del Pontremoli, dove il ricordo di certe emozioni provate all’improvviso, come colpi di fulmine, hanno suggerito alle mani geometrie irrispettose, prospettive irreali, ma assolutamente fedeli a ciò che la mente racchiude: ecco, perché, “infrazioni” del cuore.

Antonia Ciampi

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Il mondo di Salvatore Cascino

Quinzano

Case emergono dall’asfalto acquoso che rispecchia il cielo; alberi spogli spuntano dal suolo, ricoperto di neve, tendono i loro rami verso l’alto.
Non vi sono figure umane nelle vedute di Salvatore Cascino, per altro appassionato ritrattista.
Eppure, dietro le persiane verdi, chiuse, delle case, si potrebbe intuire l’attento osservare di un viso, che senza farsi scorgere, scruta le movenze del pittore; e gli alberi tendono i loro rami verso l’alto; quasi figure umane con le braccia protese nella solitudine dell’inverno della vita.
Sono fiori primaticci?
Certo il vivere è presente. Gli alberi si contorcono come in una danza frenetica; una specie di sabba orgiastico che non vuole accettare il proprio destino.
L’esistenza spezzata che fa quasi presagire la fine di ogni tentativo di rinascita.
Un faticoso spingersi in avanti, che sa la propria fine, ma non vuole arrendersi.
Il pittore vede le cose, le scruta, le interpreta. Ogni uomo è interprete, spesso inconsapevole, di ciò che lo circonda e dei suoi stessi pensieri.
L’arte così (fa molto pensare), svela un mondo prima ignoto e nascosto, che ora brilla alla luce e risplende in un operare che di per sè non ha fine.Ogni artista fa risplendere un mondo a sè stesso e agli occhi di chi lo sà vedere.
Qual è il mondo di Salvatore Cascino?
La sua pittura poetica parla di solitudine, parla di dolore, ma parla anche di forza; i fiori gialli di una delle ultime nature morte, che escono prepotenti dal quadro, sembrano forse accennare ad un’energia ritrovata, che urla con estremo vigore la necessità di non arrendersi.

giovanni motta

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Silenzio

Strada di Bolsena

Silenzio e solitudine generalmente portano alla meditazione chi per udire, chi per intuire ciò che noi siamo veramente e darci a volte la spiegazione della nostra presenza umana che, nei casi, può portare a una più sviluppata possibilità di penetrare il problema dell’essenzialità che da all’arte figurativa la validità e la ragione dell’opera in quanto ci ripropone, per una se stessa origine, quell’ascolto e quella meditazione che è la base dell’arte stessa. E’ indubbio che nelle tele di Salvatore Cascino eleggi quel silenzio meditativo e, di più, una affettuosa necessità di raccoglimento per iniziare un dialogo che la natura e le cose hanno promosso, un dialogo assorto, dove le cose, elaborate nella sua interpretazione, non sono presenti per una immagine figurata ma per una trasfigurazione che rende leggibili i momenti della sua malinconica intimità, raggiungendo il contato emotivo dell’assentimento nella sua interpretazione, per la nostra continua indagine nell’identificazione della forma e della sostanza quale emozione o quale carica contenutivi, riportando così il problema a quel silenzio, a quel raccoglimento che è già per se stesso un invito alla ricerca, al contatto con l’essenziale, per una sempre più attenta presenza al problema dei valori umani che si identificano sul piano dell’arte.
Per questo noi diciamo che la pittura di Salvatore Cascino è legata alle forme della vita, alle forme che escono dalla terra e si protendono verso il cielo. Sono i suoi alberi; alberi di pianura descritti con linguaggio fortemente espressivo, inseriti in un paesaggio risolto con pacata tonalità. E’ l’artista che si fa corteccia e ramo con il pudore e la “charitas” dell’uomo che si affaccia sul segreto della natura e cerca di penetrarlo, di esplorarlo nel profondo per poi riproporlo coltrato attraverso una sensibilità trasparente e creativa; quello di Cascino è un “modo di essere” che immediatamente, in una simultaneità di creazione e di esecuzione, traduce i momenti fondamentali della simbiosi: arte-natura.
E’ un linguaggio vigoroso. Con ritmo lento i rami ricordano il desiderio insoddisfatto di un equilibrio razionale inutilmente cercato su questa terra. Anche le “case” e le “figure” e le “composizioni” parlano lo stesso linguaggio delle cose, con serenità, con lirismo fresco, con materia vibrante senza alcuna concessione di facile effetto.
Nelle “nature morte” – specchio del suo animo, – Salvatore Cascino vuole porsi con umiltà di spirito dinanzi ai grandi problemi della pittura, attraverso una filtrazione degli oggetti più umili e comuni.
Specchio del suo animo- abbiamo detto, – perché le sue “nature morte”, simboleggiano una natura silenziosa, immota, ma non priva di vita.

paolo olindo giusti

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